10.Finalmente a Roma

11.La missione in Brasile

Jatai nel cuore del Brasile – La prima sede missionaria

Rio de Janeiro. Il Corcovado col Cristo redentore
La città di Jatai oggi
Interno dell’ospedale di Jatai
Ospedale di Jatai – Brasile
La città di Cravinhos oggi, nello stato di San Paolo
Cravinhos, Relatorio: bambini con le loro mamme

Verso l’America Latina

Florenzia aveva sempre desiderato che la sua congregazione avesse un respiro missionario. Già nel 1905 al tempo della fondazione aveva pensato di qualificare in questo senso il suo progettoe, nel 1937, aveva scritto al vescovo di Acireale per conoscere le pratiche da compiere per aprire una casa in Africa orientale, ma il proposito non ebbe seguito.

Alla Madre venivano in mente questi ricordi, mentre padre Oderico, un cappuccino missionario in Brasile, in una mattina primaverile della fine di maggio del 1953, le parlava della drammatica situazione dei poveri e dei bambini in quelle terre, dove soprattutto l’ignoranza e, per quanto riguardava gli indios, un’esistenza disumana e priva dei diritti civili, erano alla base della fame e della miseria. Padre Oderico sperava che Florenzia accettasse di inviare in Brasile alcune suore per aprire una missione.

– C’è tanto lavoro da fare – spiega il missionario – e, per quanto qui la situazione sia difficile per moltissimi, non c’è paragone con la povertà di quei luoghi. Questi sono anni drammatici segnati dall’inflazione e, soprattutto, da una corruzione dilagante che fanno di questo enorme paese al tempo stesso una realtà ricchissima per le materie prime e poverissima dal punto di vista sociale.

– Dare il via a un’esperienza missionaria – osserva Florenzia – mi piacerebbe molto, è sempre stato il mio sogno. Soprattutto da quando abbiamo il riconoscimento pontificio. Mi è sempre rimasta in mente una conversazione che ebbi a New York con madre Francesca Cabrini, ora divenuta santa. A un certo punto mi disse: “Ho desiderato con forza aprire la casa generalizia a Roma ed avere il riconoscimento pontificio. Che senso ha fare i missionari nel mondo con un istituto riconosciuto solo dalla diocesi?”. Questa sua considerazione non l’ho mai dimenticata e mi ha sostenuto, quando, subito finita la guerra, volli venire a Roma proprio per realizzare questo programma. Ma noi siamo ancora poche e con risorse molto limitate.

– La missione in Brasile potrebbe essere l’occasione per avere nuove vocazioni.

– Sarebbe una grazia del Signore. Se lei ci aiuta, proveremo ad avviare anche questa esperienza. Ne parlerò al prossimo Consiglio. Certo, non posso pensare di accompagnare io le mie suore come ho fatto ancora fino a una decina di anni fa, sono ormai troppo vecchia e acciaccata, ma sceglierò io una a una le suore da mandare.

Il Consiglio approvò la proposta di Florenzia e, il 20 giugno 1953, si svolse nella cappella della casa di Roma la cerimonia del saluto alle suore missionarie.

Il vicario promise di prendersi cura di loro mettendole in guardia che proprio a Jatai la situazione era un po’ delicata, perché nel comprensorio vi era una discreta presenza di protestanti e la loro comunità aveva manifestato anch’essa interesse per l’ospedale.

A incontrarle a Jatai c’erano suore e frati agostiniani, la dottoressa dell’ospedale col marito che erano bergamaschi. In macchina si andò subito a vedere la casa dove avrebbero vissuto.

Già il 27, le nostre suore si trasferiscono nella loro casa e vanno a visitare l’ospedale. Nella casa si tratta di stabilire la routine degli impegni comuni.

– Siccome non abbiamo una cappella – suggerisce la superiora –, le preghiere le recitiamo in salotto e tutte le mattine, subito dopo la meditazione, andiamo in parrocchia – anche se un po’ distante – per partecipare alla messa.

L’ospedale era una costruzione nuova e la cerimonia delle consegne fu, di fatto, una vera e propria inaugurazione con la benedizione di locali, la presentazione dei dottori, e la visita in infermeria dove ancora c’erano solo due ricoverati: una donna e un giovane, giunti proprio quella mattina.

In ospedale le suore andavano tutti i giorni. Intanto, gli ammalati cominciarono ad arrivare, anche se alcuni giungevano appena in tempo per i sacramenti. Ciò che era più evidente – fra la gente che batteva alla porta dell’ospedale e quella che si incontrava per strada – era la miseria.

Ma, per quanto le suore si prodigassero soprattutto per creare in ospedale un clima di collaborazione e di fiducia reciproca, i problemi non mancavano. C’era la barriera della lingua, ma l’incomprensione era ben maggiore.

Persino il fatto che sollecitassero un contributo veniva criticato e negato secondo la tesi che, essendo suore, avrebbero dovuto lavorare gratuitamente, visto che si trattava di un’opera di carità che aveva solo un finanziamento dello Stato, il cui importo era insufficiente e, quindi, erano necessari contributi dei privati.

Dovette intervenire il vicario e parroco di Jatai, per chiarire quali fossero le condizioni per il lavoro delle suore. Si superò così, dopo mesi, quella condizione di estrema povertà in cui erano state costrette a vivere fin dal loro arrivo. Ma il clima dei rapporti continuava a non essere dei migliori.

Florenzia seguiva la missione delle sue figliole, da Roma, con partecipazione e apprensione. Avrebbe voluto sicuramente essere ancora lei ad aprire con loro questa nuova pista, ma era rassegnata a seguirle solo col pensiero e la preghiera. Ogni sera verso le 21, guardando dalla terrazza un aereo alto nel cielo, soleva dire: “Questo mi porta la lettera delle suore del Brasile”. Capitava che il giorno dopo il postino recasse davvero questa lettera e lei, tutta felice, commentava: “Ve lo dicevo io!”.

Si preoccupava di ognuna. Dava consigli e rincuorava. Prima di ricevere la prima lettera da loro, ne aveva spedite tre. Alla lettera risponderà immediatamente e confesserà: “Quando riceviamo una vostra lettera, è una festa per noi, specie per la sottoscritta che ne vorrebbe una al giorno”.

Quando legge che suor Matilde le chiede di inviare altre suore istruite e al più presto perché il lavoro è tanto, ha una reazione immediata. “Lei sa lo scarso numero che siamo nella nostra comunità… Come si permette dire tali cose, mia cara. Lei è partita da qua, col pensiero di avere costì delle vocazioni e mandarle qua, invece chiede aiuti e suore istruite. Mi sembra che non si ragiona, cara Superiora, stia tranquilla, si sottometta con tutto il cuore ai voleri di Dio e il Signore la colmerà di grazie”.

L’irritazione, però, è frutto di un momento e Florenzia torna a preoccuparsi per le sue figliole.

“Cara Superiora, lei dev’essere di cuore grande, coraggiosa e avere molta fede in Dio. Mi è stato detto che costì vi sono le Suore Francescane missionarie e, quando sono arrivate, nessuna accoglienza hanno avuto e sono state all’aperto notte e giorno per molti giorni; vi sono anche le suore dove va a prendere lezione suor Benedetta e hanno pianto per sei mesi. Voi siete state ricevute con tanta carità, quindi, cara Superiora, la prego di fare il tutto per imparare la lingua ed anche imparare a scriverla così potete fare scuola e con la scuola tanto bene. Le suore, che dovrebbero venire costì, dovranno essere istruite e sapere parlare bene il portoghese, ma per questo passeranno diversi anni”.

La suora nella sua lettera le ha parlato della miseria che c’è dovunque e della tristezza che le assale di fronte a questa visione e alla consapevolezza di poter fare troppo poco. Florenzia cerca di consolarla e teme che le consorelle possano cadere in depressione; per questo consiglia di non pensarci troppo: “Quelli sono nati nella miseria e non vi fanno caso, lei li raccomanda al Signore, se può beneficarli con qualche cosa lo faccia ed il Signore gliene darà merito”.

Via via che l’ospedale si riempiva di malati, aumentavano i problemi per il loro sostentamento e quello del personale, perché i contributi che arrivavano erano insufficienti e la superiora, quale direttrice dell’ospedale, non sapeva come fare quadrare i conti. Ma più passava il tempo e più la situazione economica dell’ospedale peggiorava perché aumentavano i malati e anche i dottori e il personale, mentre le risorse rimanevano sempre le stesse.

Come se i problemi esistenti all’ospedale non bastassero, ne emerse uno nuovo che mise in discussione la pace religiosa. Andarono via due infermiere e vennero sostituite da altre quattro di confessione protestante. E siccome non si sopportavano con le infermiere cattoliche, litigavano in continuazione.

Quando nel luglio del 1955 suor Matilde dovette andare a Rio de Janeiro per il Congresso eucaristico, ne approfittò per interessarsi dell’ospedale. Andò al Ministero della Salute e si incontrò con alcuni deputati del Goiàs per chiedere maggiori finanziamenti pubblici. Tentò anche una questua presso le famiglie italiane ricche di Rio, ma ne ricavò solo umiliazioni.

– L’unico consiglio che mi sento di darle e che – confortò suor Matilde vedendola turbata la superiora delle suore dove alloggiava –, se non vede possibilità di miglioramento, è meglio che abbandoniate Jatai e vi trasferiate in un’altra città del Brasile.

Abbandonare Jatai e trasferirsi altrove? Suor Matilde non poteva dire che non ci avesse mai pensato. Ma era un pensiero fugace nei momenti di maggiore disperazione.

Ma più trascorreva il tempo più la situazione si deteriorava.

Ma se suor Matilde non sapeva come fare, c’era invece chi il problema se lo stava prendendo a cuore: Padre Oderico. L’impegno del frate cappuccino diede i suoi risultati. Suor Matilde ricevette una sua lettera che la invitava a Cravinhos, nello stato di Sâo Paulo, dove il vicario cercava delle suore per dirigere l’ospedale del posto.

A gennaio del 1956, suor Matilde e suor Assuntina raggiungevano a Cravinhos padre Oderico. L’ospedale era una struttura, poterono constatare con soddisfazione, meglio attrezzata e organizzata di quella di Jatai. Suor Matilde propendeva per il sì, ma dovevano prima consultarsi con Florenzia.

– D’accordo – dice il parroco –, ma a condizioni che la vostra accettazione sia certa e che vi troverete a Cravinhos prima di Pasqua.

– Accettiamo – commentò suor Matilde –, ma vi chiediamo di attendere il tempo di ottenere il beneplacito da Roma, che sicuramente sarà positivo.

Erano tutti soddisfatti e contenti. Il giorno dopo, prima di prendere l’aereo, le nostre suore vanno a trovare il vescovo, della cui diocesi Jatai fa parte, per parlargli della proposta che hanno ricevuto. Il vescovo è contrario a questo trasferimento, perché teme che il lavoro fatto vada in fumo e i protestanti prendano il sopravvento.

– È vero, Eccellenza – risponde suor Matilde –, ma Jatai sembra un vicolo cieco, mentre rinunciare a Cravinhos vorrebbe dire gettare via una grande prospettiva per il nostro istituto. Certo, se fossimo più numerose in Italia, potremmo chiedere di mandare qui altre suore per continuare a gestire Jatai senza sacrificare Cravinhos. Ma è una richiesta che non mi sento nemmeno di fare alla mia superiora generale.

La struttura era ormai allo sbando. Ognuno decideva per proprio conto e le decisioni di un giorno venivano annullate in quello successivo.

In questa situazione di avvilimento giunse, alla vigilia di Pasqua, la notizia che Florenzia era morta. Fu un colpo duro perché inaspettato. Le suore si chiusero in lutto per piangere la Madre scomparsa, ma siccome si era in periodo pasquale, si dovette aspettare il 10 aprile per celebrare le esequie nella cappella. Intanto, insieme alla notizia della morte, era giunto il consenso per trasferirsi a Cravinhos.

Era l’ultimo atto di governo della sua congregazione che Florenzia aveva compiuto, prima di chiudere gli occhi per sempre. Negli stessi giorni arrivava una lettera del parroco di Cravinhos che informava che il contratto che le suore avevano inviato due mesi prima era stato ponderato dal vescovo locale, dalle autorità dell’ospedale e da lui stesso, ottenendo da tutti il pieno consenso.

Mancava solo il consenso del vescovo della diocesi di Jatai. Per convincerlo fu necessario che ci si appellasse a Roma, ma alla fine anche questo scoglio fu superato. Con tanta pena nel cuore perché, malgrado le sofferenze e le umiliazioni, in quei luoghi avevano investito anche tanta passione e tanta speranza.

12.Un transito sereno