5.Giovanna prende coscienza della propria vocazione
6.L’esperienza americana
Verso l’America
La traversata non fu per niente piacevole. Il primo colpo al cuore Giovanna lo ricevette quando furono a bordo della nave: i grandi cameroni con i letti a castello su cui era gettato un sacco-materasso imbottito di paglia, nelle condizioni igieniche più incredibili. Se le premesse erano avvilenti, il viaggio si rivelò addirittura drammatico.
Dopo un paio di giorni di navigazione, passato lo stretto di Gibilterra e affrontato l’oceano, si imbatterono in una tremenda tempesta. Onde gigantesche, che sembravano poter sommergere la nave, la sballottavano senza tregua.
Quando la tempesta scemò si prese visione che c’erano stati alcuni morti: bambini e anziani.
Un frate francescano, che andava a raggiungere la sua missione a New York e la domenica aveva detto messa in coperta approfittando di una bella giornata di sole, impartì ai morti l’estrema unzione. Il frate francescano si chiamava padre Daniele: era un frate minore che era stato assegnato alla Custodia dell’Immacolata Concezione di New York e con lui Giovanna aveva fatto subito conoscenza.
– C’è molto bisogno di missionari italiani negli Stati Uniti – aveva spiegato padre Daniele –, dove l’emigrazione dalle nostre regioni è sempre in continua crescita. Infatti, gli italiani, quando arrivano in America, trovano un mondo del tutto nuovo e spesso incomprensibile. C’è, è vero, la Chiesa cattolica, ma essa ha una decisa impronta irlandese perché, mentre gli americani di origine britannica sono soprattutto protestanti, gli irlandesi sono cattolici e sono arrivati prima di noi. Irlandese è così la maggior parte del clero, irlandesi sono i vescovi, ma irlandese è anche la cultura che caratterizza le funzioni religiose. E così molti italiani non si trovano a loro agio e spesso gli stessi irlandesi tendono a non favorire la loro partecipazione alle chiese, perché li giudicano sporchi, ignoranti, violenti e anche tendenzialmente delinquenti; inoltre, considerano la loro religiosità di tipo idolatra con quella devozione eccessiva per i santi, con la mania delle processioni.
Con padre Daniele Giovanna si era confidata nelle lunghe giornate di viaggio, gli aveva raccontato di Lipari, della vita a Pirrera, della sua vocazione, delle difficoltà della famiglia.
– Nella parrocchia dove sono destinato, che è una parrocchia di francescani italiani, frequentata da molti nostri compaesani, c’è anche un convento di suore. Si chiamano Sorelle del Terzo Ordine Regolare di San Francesco di Allegany. Quando vi sarete sistemati a New York, se la vostra casa non è troppo distante, veniteci a trovare.
All’alba del quattordicesimo giorno, nei cameroni si diffuse la voce che l’America era ormai in vista e tutti corsero subito in coperta a scrutare il nuovo mondo che si stagliava all’orizzonte.
– Lì in fondo – spiegò il fratello Giuseppe che era andato ad informarsi – c’è New York e l’isola su cui è costruita si chiama Manhattan. Là attraccherà la nave, ma poi ci faranno salire su un traghetto e ci porteranno in un’isola chiamata Ellis Island, dove dovremo fare dei controlli. È una nuova legge in vigore da alcuni anni per evitare che in America arrivino gente malata o inabile. E quelli che non superano la visita vengono rimandati in patria.
Passarono due giorni a Ellis Island, giacché tanti ce ne vollero per tutti i controlli e le visite. Ma non ci furono particolari problemi. La famiglia Profilio superò tutte le visite e tutte le prove e già la sera del giorno dopo sbarcò a Battery Park, dove erano ad attenderli, fin dalla mattina.
Giovanna chiese subito notizie della Chiesa di Sant’Antonio di cui le aveva parlato Padre Daniele.
– È qua vicino, gli rispose la zia, a cento metri o poco più, in Sullivan street. L’hanno inaugurata proprio otto anni fa ed è la prima parrocchia per emigrati italiani in New York.
Il giorno dopo, domenica, Giovanna si alzò per tempo e andò alla chiesa di Sant’Antonio. Questa Chiesa fece subito una forte impressione a Giovanna. Non aveva mai visto una chiesa così grande, più grande della cattedrale di Lipari. Tutta in mattoni rossi con un grande rosone sul frontone in alto e un alto campanile che la sormontava di almeno una decina di metri.
In fabbrica Giovanna ci andava volentieri. Era un mondo di macchine ben diverso di quello che aveva conosciuto fino allora, cadenzato sui ritmi della natura. Ma Giovanna sapeva che – anche in questo mondo – l’origine di tutto era Dio e non bisognava mai diventare schiavi delle macchine o del lavoro o dell’ansia di guadagnare che poi era la stessa cosa.
Fra le sue compagne di lavoro ce n’erano molte che erano disposte a fare tanti straordinari forse per necessità, ma anche solo per potersi comperare un vestito più bello, dei gioielli, dei profumi. Entrare in questo circuito era pericoloso e non ci voleva molto, perché in questa città ogni cosa si poteva acquistare anche a rate come loro avevano fatto coi mobili. Ma le rate venivano a scadenza e bisognava pagarle. A Giovanna piaceva lavorare, ma voleva avere il tempo per fare altre cose: per dedicarsi alla casa e alla famiglia, per passeggiare guardandosi intorno, scoprendo cose nuove , studiare per imparare la lingua e, soprattutto, tempo per pregare.
Giovanna pregava anche sul lavoro. Le sue compagne la vedevano sempre silenziosa, riservata, schiva, disinteressata ai pettegolezzi, ai piccoli scherzi negli intervalli di lavoro. Se le rivolgevano la parola, lei rispondeva perché non voleva apparire superba e scostante: ma non era lei che avviava un discorso.
Giovanna pregava anche quando era a casa, pregava quando camminava lungo le strade e pregava in chiesa dove ci andava tutte le mattine prima di recarsi al lavoro, alla prima messa, quella delle sette. La preghiera di Giovanna non era solo il suo rosario quotidiano che non mancava mai, ma era soprattutto una conversazione continua con la Madonna e con Gesù. Una conversazione fatta di ragionamenti, di suppliche e di lunghi silenzi che lei chiamava, per se stessa, momenti di “ascolto”.
Giovanna ritornava con la mente anche alle discussioni con padre Daniele, che era diventato il suo direttore spirituale e a cui confidava i suoi problemi, le sue speranze, l’ansia che finalmente giungesse l’atteso momento in cui avrebbe potuto farsi suora. Padre Daniele le parlava di san Francesco e della spiritualità francescana. E Giovanna rimaneva affascinata dal racconto sulla perfetta letizia.
– È il punto di arrivo di un lungo cammino – spiegava il frate –. Un cammino che parte dalla nostra propensione a mettere noi stessi al centro di tutto e a considerare il mondo da questa centralità, per cui tutto ciò che non ci favorisce o ci contrasta crea in noi sofferenza. Il punto d’arrivo è Gesù che è nascosto nel povero che mi tende la mano, nel bambino che ha fame, nei compagni che non capiscono. Ecco che allora ogni mio sforzo di aiuto, di condivisione, di comprensione diventa fonte di gioia, anche se vuol dire sacrificio, privazione, fatica, compassione.
Sempre attraverso padre Daniele, Giovanna aveva conosciuto le suore che vivevano nel convento a poche decine di metri dalla chiesa, sul marciapiede opposto, all’angolo con Prince street. Si chiamavano – come le aveva anticipato padre Daniele sulla nave – Sisters of Third Order Regular of Saint Francis of Allegany, cioè Sorelle del Terzo Ordine Regolare di San Francesco di Allegany.
E fu dalle franciscan sisters che Giovanna venne a sapere di una suora italiana, Francesca Cabrini, che da diversi anni operava a New York e aveva fondato prima una scuola e un orfanotrofio per i bambini emigrati italiani e poi, nel 1892, aveva realizzato un ospedale – il Columbus Hospital –, che in poco tempo era stato ampliato e riconosciuto ente morale dallo stato di New York.
Ed è proprio stimolata da questi racconti che Giovanna, in una giornata del dicembre del 1898, saputo che la Madre stava aprendo una scuola di taglio, cucito e ricamo, in Bleccker street, decide di andare a conoscerla.
Si può dire che l’incontro fu sconvolgente per Giovanna. Parlò di tante cose con la Madre: della nascita dell’Istituto Salesiane Missionarie del Sacro Cuore, dell’importanza delle missioni, del modo di trasmettere la fede, dell’importanza di dare dignità e iniziativa alle donne.
– L’idea di farmi missionaria fu all’origine della mia vocazione – le disse madre Cabrini –. Ho sempre pensato che anche noi facciamo parte della famiglia degli Apostoli e, quindi, abbiamo la missione di essere il sale della terra, la luce del mondo. Bisogna avvicinare tutti, non solo chi è già cattolico. Per parlare a tutti di Gesù è necessario innanzitutto accostarsi ai loro bisogni, alle loro esigenze umane, aiutarli e sostenerli in un’esperienza di vita dove si soffre soprattutto per l’isolamento e l’abbandono.
– E hai ragione Giovanna, è giunto il momento che le donne devono prendere l’iniziativa anche nella vita religiosa. Ma ci sono tanti pregiudizi, anche da noi, nell’Italia del nord, non è facile. Quando ho cominciato a parlare di volermi dedicare alle missioni, tutti me lo sconsigliavano. Non è vocazione per donne, mi dicevano. Fonda un istituto e dedicati ai problemi del tuo paese. Per fortuna che ho incontrato dei vescovi di larghe vedute che mi hanno aiutato. La nostra è stata la prima congregazione missionaria femminile.
Giovanna uscì da quell’incontro trasformata. E furono certamente questi discorsi, oltre all’esempio delle franciscan sisters in parrocchia a farle nascere, non il pensiero che non era mai venuto meno, ma l’urgenza di entrare in convento.
– Sono quasi tre anni che siamo a New York,- esordì una sera, dopo cena, Giovanna – abbiamo pagato tutti i debiti, grazie a Dio non ci manca niente. Mamma, quando a Lipari avevo espresso il mio desiderio di farmi suora, voi avete detto che non era quello il momento, che dovevamo rimanere tutti uniti per fare fronte alle difficoltà. Ed io ho ubbidito perché era veramente un momento grave. Ma ora l’emergenza è finita ed io ho compiuto 26 anni. Voi sapete che io penso a questo tutti i giorni. Datemi il vostro consenso perché io possa seguire la mia vocazione.
– Giovanna, – replicò la madre – tu sai che non mi piacciono le discussioni. Io ho detto come la penso e non se ne parli più. Quello che ho detto a te vale per tutti. Dobbiamo stare uniti perché questa è la nostra forza.
Giovanna quella notte non dormì quasi affatto. Si girava e rigirava nel letto e andava col pensiero alla risposta della mamma. Non aveva detto aspettiamo ancora qualche mese… No, era stata una risposta secca e sarebbe stata sempre la stessa fra un anno, fra due. E non le pareva che ci fosse nemmeno comprensione nelle sorelle e nel fratello.. Che fare? Le venivano in mente i passi del Vangelo in cui si diceva che chi amava il padre e la madre più di Gesù non era degno di lui. Oppure l’altro in cui si assicurava la vita eterna a chi avrebbe lasciato, per Gesù, casa, fratelli, sorelle, padre, madre. E le sembravano parole rivolte in particolare a lei.
La mattina dopo si alzò più presto del solito, perché voleva andare in chiesa prima della messa e avere il tempo di confidarsi con padre Daniele.
– Volete veramente imboccare questa strada? Ma dovrete accettare una dura disciplina. Dovrete educarvi a tenere occhi chiusi, bocca chiusa, orecchie chiuse. È questa la strada per farvi santa voi e fare santo anche il convento.
– Sono almeno dieci anni che cerco di vivere come una suora accettando sacrifici e facendo penitenze…
E fu in quei giorni, mentre tornava dal lavoro e andava rimuginando queste cose nella sua mente e si chiedeva che cosa fare, che sentì chiaramente e distintamente la “voce”. Ma questa volta non era dentro di sé, ma come se venisse dal cielo.
“Non preoccuparti – diceva la voce – tu ti farai religiosa. Io ti farò superiora di una casa religiosa e ti proteggerò”.
A quelle parole Giovanna si sentì come rinfrancata. Tutti i dubbi svanirono e si sentì determinata e, allo stesso tempo, tranquilla in coscienza. Quella sera avrebbe riproposto il problema, ma sarebbe stato per l’ultima volta e, se la risposta fosse stata la stessa delle altre volte, l’indomani mattino avrebbe detto a padre Daniele che non voleva più aspettare.
E così avvenne. Quando padre Daniele si vide di fronte la giovane più risoluta che mai, capì che non poteva più tergiversare.
“Va bene – le disse – fra tre giorni ritornate”.
E tre giorni dopo il frate, accogliendola con un grande sorriso, le disse che tutto era pronto e le suore l’aspettavano.